Di Stefano e Cassarà capi mafiosi? Uno collaborava, l’altro denunciava le cosche

 
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Gela. I magistrati della direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta li ritengono capaci, proprio per la loro presunta appartenenza al gruppo mafioso dei Rinzivillo, di sottoporre ad estorsione gli imprenditori locali e di avere disponibilità di armi e droga, con tanto di riferimento ai servizi segreti. Elementi emersi dal blitz “Fabula”.

Il quarantaseienne Roberto Di Stefano e la sua presunta spalla Nicolò Cassarà, arrestati nelle ultime ore insieme al trentatreenne Davide Pardo, soprattutto negli ultimi mesi, avevano dato segnali totalmente opposti.
Nel luglio di un anno fa, il presunto capo del gruppo aveva addirittura scelto di collaborare con i magistrati. Dopo le prime dichiarazioni rese, con tanto di particolari su una rapina messa a segno nel gennaio di un anno fa all’interno del supermercato Fortè di via San Valentino, Di Stefano ha detto basta lo scorso mese. Ha firmato la rinuncia al servizio di protezione per ritornare in città insieme alla nuova compagna.
Solo pochi giorni prima dell’arresto, si è presentato in aula a ritrattare interamente le dichiarazioni rese ai magistrati sulla rapina al supermercato. “Mi sono inventato tutto”, ha replicato in maniera secca al pubblico ministero Silvia Benetti che aveva deciso di sentirlo in qualità di testimone.
“Avevo deciso di collaborare per tanti motivi – disse alla nostra testata nei giorni dell’abbandono del programma di protezione – la mia situazione familiare non era delle migliori. Ero sotto protezione ma ho deciso di uscire dal programma. Adesso la mia vita riprenderà regolarmente. Non lavoro anche perché ho acquisito la libertà solo lunedì scorso. Dovrò cercare di andare avanti con le mie capacità rimanendo in città”.
Non da meno, il suo presunto sodale Nicolò Cassarà, appena arrestato a Foggia dove si trovava per motivi personali. L’ex titolare di una cava d’inerti, sempre durante l’audizione fissata in uno dei processi scaturiti dal blitz antimafia “Tetragona”, denunciò pubblicamente di essere stato sottoposto, per anni, ad estorsione dai gruppi di cosa nostra locali.
“La mafia mi ha distrutto la vita – disse l’imprenditore davanti ai magistrati della corte presieduta dal giudice Paolo Fiore – non ho mai pensato di lavorare chiedendo favori agli esponenti della criminalità organizzata. Ora, sono in difficoltà. Credo in Dio e ho una famiglia che mi supporta continuamente ma, adesso, sono veramente stanco. Di recente, un gruppo d’imprenditori impegnato in lavori nella zona di Caltagirone mi ha proposto di fornire gli inerti per i loro cantieri. Li ho ringraziati ma non ho più la forza di lavorare. Sto pensando di vendere la mia attività”.
Adesso, invece, i magistrati della Dda nissena, gli agenti di polizia della mobile di Caltanissetta e del commissariato di via Zucchetto lo accusano di aver adescato suoi colleghi ai quali imporre la messa a posto, camuffata da tutela. Addirittura, forte della collaborazione con la giustizia avviata da Di Stefano e di una sua presunta vicinanza al servizio segreto italiano, avrebbe chiesto soldi per risolvere alcune pendenze penali degli imprenditori finiti nel mirino.
Di Stefano e Cassarà sono semplici attori pronti a sfruttare l’occasione, come emerge dall’attività d’indagine, oppure hanno effettivamente voluto percorrere una strada diversa da quella criminale? Intanto, dovrebbero essere sentiti già nelle prossime ore dagli stessi magistrati e dal giudice delle indagini preliminari Lirio Conti. Nicolò Cassarà verrà ascoltato per rogatoria attraverso il gip di Foggia, località pugliese dove è stato fermato. E’ difeso dal legale di fiducia Giovanni Lomonaco. Davide Pardo, nipote di Di Stefano, considerato il leader di un nuovo gruppo legato alla famiglia Rinzivillo, entrato in contrasto con quello dello zio, è difeso dall’avvocato Cristina Alfieri.

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