Lettera di Billizzi, il clan, la famiglia. “Per 20 anni ho vissuto una vita parallela”

 
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Gela. “Per avere un futuro bisogna partire dal passato. Devo tutto a mia moglie. E’ stata lei a salvarmi”. Sceglie una lunga lettera Carmelo Massimo Billizzi per raccontare il suo pentimento, ma soprattutto per mostrare il suo amore alla persona che lo ha convinto a rompere con la mafia e ricostruire una nuova vita.

L’ex reggente di Cosa nostra ha iniziato a collaborare da due anni. Ha ammesso reati anche gravissimi, tirando fuori nomi non solo dei picciotti, ma auto accusandosi di delitti irrisolti. In una lunga lettera inviata al Giornale Di Sicilia racconta il suo percorso di pentimento. “Io devo tutto a mia moglie – scrive – ho detto tutto a lei. Non si può scendere a compromessi. Per ricominciare devo affrontare la verità e il suo dolore. Non si possono gettare nuove fondamenta sulla menzogna”. Quella menzogna che ha accompagnato la sua vita. “Sembravo un uomo capace- racconta- il mio benessere era basato sul male fatto agli altri. Ho sempre tenuto fuori mia moglie dalla verità. Gli ho fatto conoscere una parte di me che non esisteva, una maschera. Per 20 anni ho portato avanti una vita parallela”. “Come potevi addormentarti con me quando eri così?”, gli ha rinfacciato la moglie.

Billizzi racconta che vivendo nella menzogna gli amici intimi non posso che essere criminali. La sua “famiglia” erano i picciotti del clan. “La famiglia criminale viene prima di tutto e ti obbliga a essere disponibile in qualsiasi momento. Non puoi fare nessun progetto, una vacanza, una iniziativa. Devi correre quando ti chiamano. Puoi festeggiare un compleanno del figlio, ma se ti chiamano lasci tutto e vai. Con la famiglia mafiosa devi stare sempre attento e guardarti le spalle proprio dalle persone con cui hai fatto un patto di sangue”.

“Ho più intimità con mia moglie in quest’ultimo anno che in 20 anni di vita parallela. I miei familiari sono due volte vittime. Ho raccontato tutto a mia moglie partendo dall’infanzia. Ho provato vergogna ma anche un senso di liberazione. Ero l’uomo più omertoso che potesse esistere. Nella mentalità mafiosa la cosa più importante è essere un duro. Non mi sentivo inferiore a nessuno. Non avevo paura di niente e se c’era un’azione criminosa da compiere non mi tiravo indietro. Grazie a mia moglie sono riuscito a fare la scelta della collaborazione. Se non fosse stata dalla mia parte non sarei qui. Nel mio vocabolario non c’era la parola amore. In tredici anni di matrimonio dieci li ho passati in carcere. Quando è nata la mia prima figlia ero agli arresti domiciliari. Per anni ho potuto vedere i figli da dietro un vetro senza poterli toccare. Oggi ci stiamo avvicinando. E mio figlio mi chiama “papà”. 

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