Meridione, agricoltura avanzata prima dell’unità d’Italia

 
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Gela. L’agricoltura nel Regno delle Due Sicilie
Abbiamo letto in tutti i testi storici ufficiali dei vincitori che nel Regno delle Due Sicilie l’agricoltura era arretrata e bloccata dal feudalesimo governato da principi e baroni. Mentre nel settentrione d’Italia, non esisteva il feudalesimo e i contadini vivevano nell’agiatezza assoluta. Oggi, leggendo il testo di Michele Vocino, ”Primati del regno di Napoli”, scopriamo cose inaudite.
Vocino asserisce testualmente:”la coltura intensiva, non ha potuto avervi seguito essendo quella estensiva imposta drasticamente. Tuttavia, pur tra le avversità naturali che sembrano, ed in buon parte erano insormontabili, la tenacia, la laboriosità e l’intelligenza degli agricoltori locali hanno finito, dove hanno e come hanno potuto, col trionfare. E ciò costituisce per loro un merito maggiore di quello che si usa riconoscere agli agricoltori centro settentrionali, pei quali assai più agevoli si sono presentati le possibilità di portare le loro colture all’altezza alla quale l’hanno portata. Per questo una storia più obiettiva e più veritiera della agricoltura e degli agricoltori meridionali resta ancora a fare. Vero è che non sono mancati e non mancano riconoscimenti da parte di tecnici non sospetti perché settentrionali, ma il grosso, che giudica superficialmente senza rendersi esatto conto di quel che dice, ha misconosciuto e continua a misconoscere queste avversità naturali delle terre meridionali e le qualità positive dei loro coltivatori, persistendo in giudizi errati. Sta di fatto che anche nel mezzogiorno, nelle zone dove il lavoro umano poteva trarre dall’agricoltura con qualsiasi frutto è stato fatto quello che si poteva, e forse più di quanto economicamente conveniva di fare, per passare dal pascolo alla monocoltura cerealicola e da questa a quella intensiva”.

Infatti la regione campana fu definita “terra felix” e “terra di lavoro” senza escludere la Puglia dove si raggiunsero risultati veramente straordinari. Simili risultati si raggiunsero sulle riviere di Sorrento, in Calabria e in Sicilia, dove il clima e l’acqua hanno consentito la coltivazione degli agrumi apprezzati in tutti i mercati del mondo. Anche le colture legnose come il fico, il ciliegio, il mandorlo e, principalmente, l’olivo e la vite che ancora oggi costituiscono una apprezzata peculiarità dell’economia meridionale. Vogliamo ricordare le benemerite Regie Società Economiche istituite in tutte le provincie “di qua del faro” nel 1810 con decreti Murattiani e riordinati dai Borboni con decreti del maggio 1817. Gli sviluppi di queste Regie Società economiche di capitanata furono notevoli e da un lavoro di Scipione Staffa si evince la premiazione del premio Tenore 1856.
Sulle Società Economiche di Capitanata si è molto parlato anche per l’incremento della bachicoltura, della gelsicoltura e la filatura della seta, l’incoraggiamento dell’industria dell’olivo, la ricerca delle sementi speciali per il grano e la ricerca di metodi speciali per preservare le coltivazioni dalla golpe o busona, e dall’orobanca, infine per aiutare gratuitamente i contadini con semi per la coltivazione dei prati e incoraggiare le cotoniere, la canapa, il lino e le peci navali.
Veniva incoraggiata la coltura con campi sperimentali dell’opicino, dei grani orientali, grani settantini, barbabietole, rape toscane, faggioli (fagioli) del Capo di Buona Speranza, giuggiolone erobbio. Furono introdotte tori e vacche Svizzere per migliorare la razza dei bovi e sono stati promessi incentivi a chi preparava l’innestamento del merinos, l’introduzione dell’ariete, delle pecore di Sassonia e d’Ungheria.
Tanti i provvedimenti innovativi dell’agricoltura meridionale quale l’aratro Ridolfi o quello toscano, la macchina da trebbiare e dei modelli degli estirpatori e sarchiatori, infatti una agricoltura avanzata prima dell’unità d’Italia e così conclude Vocino: “dobbiamo ritenere errati o per lo meno inesatti i giudizi di critica che da molti sono mossi, e, sotto lo stesso aspetto, anche errati e superficiali le opinioni che molti hanno del cosiddetto latifondo”. Comunque nell’Italia meridionale e particolarmente insulare, il latifondo non è stato creato dal feudo, ma da questo radicato e lungamente mantenuto.
Il latifondo, queste immense distese di territorio paludoso, poco frequentati da persone civili, era un luogo abitato da pastori nomadi a guardia di mandrie brade semiselvagge e dedicati al misticismo e alla delinquenza, adatto per favorire il baronaggio nelle regioni centro settentrionali e la coltura intensiva con la conseguente eliminazione del feudalesimo. Comunque, come asserisce il grande tecnico dell’agricoltura, il meridionale Maurea, tutti i tentativi fatti da agricoltori e industriali settentrionali per portare la civiltà agricola e sociale in tante campagne del mezzogiorno, fallirono miseramente. Ora dopo tutti i rivolgimenti storici, la coltura estensiva ha ceduto il passo alla coltura intensiva, anche con l’avvento del Mercato Comune Europeo.
Ci auguriamo che il MEC, possa trasformare col tempo la coltura estensiva in coltura cerealicola intensiva, provocando una netta trasformazione dei territori meridionali e in particolare il territorio gelese, che dopo la seconda colonizzazione dell’Eni, avvenuta negli anni sessanta con l’inquinamento del territorio e del mare, ha provocato il deserto delle campagne di Gela, con la cancellazione delle colture cerealicole e definitivamente di quelle cotoniere per citare le più eclatanti.

Vocino (autore amato dal sig. Augusto Marinelli), mette in evidenza alcune eccellenze del Regno Duo Siciliano e cita autori come G.F. Rubino, Placanica, Varano. Le consiglierei di leggere, tra i tanti oppositori, il grande Spadolini mentre continua ad ignorare le azioni dei ricercatori sulla questione meridionale quali: Nicola Zitara, Pino Aprile, Giacinto de’ Sivo. Chi per un verso chi per un altro non sono presi in considerazione e vengono liquidati poco elegantemente. Mi chiedo, senza avere la pretesa di disturbare nessuno di questi eccellenti scrittori, da nessuna parte il Sig, Marinelli ha mai letto che i piemontesi dopo il 1860 misero a capo delle eccellenze esistenti nel meridione, e solo nel meridione, i peggiori galeotti del nord e del sud?
Riproposti nel 1943 dagli Americani, facendo diventare Sindaci e Prefetti i capi mafia del periodo? Non ha mai visto che tutto ciò che serve allo sviluppo economico è stato costruito al nord? Che le industrie del mezzogiorno sono tutte sparite? Che qualsiasi tipo di investimento viene programmato solo ed esclusivamente al nord? La giustificazione per chi non vuole vedere è una sola e oggi tutti ne siamo convinti, il meridione è rincoglionito, il popolo che per millenni ha navigato in tutto il mondo oggi è diventato minchione (N. Zitara). Si è lasciato scippare ogni cosa dagli onesti piemontesi senza colpo ferire, perché questi nella consapevolezza di avere operato solo ed esclusivamente per una causa nobile cioè l’unità d’Italia e la relativa liberazione dai Borboni con la successiva colonizzazione, questi ignoranti “briganti”, hanno pure il coraggio di protestare?
Per volontà divina si sono costruiti le autostrade, ferrovie, i migliori ospedali, i più grandi istituti bancari, tutte le eccellenze al nord e sempre per volontà Divina e per le eccellenti capacità naturali di questi uomini, cosa hanno da cianciare i meridionali? Tutto è superfluo nel meridione mentre per il settentrione tutto è necessario per lo sviluppo economico della vera Italia.
Che motivo hanno Pino Aprile, Angelo Forgione, Giordano Bruno Guerri, Antonio Ciano, Lino Patruno, Nicola Zitara, Luigi Angiuli, Michele Antonino Crociata,Giovanni Maduli, Aurelio Vento, Giacinto de’ Sivo, Michele Vocino e tanti altri ricercatori che hanno rispolverato le carte secretate dai vari governi che si sono succeduti alla invasione barbarica dei Piemontesi del 1860? Il re d’Italia Vittorio Emanuele II (re galantuomo) con Camillo Benso Conte di Cavour (grande stratega e politologo) sulla invasione dei nordisti onesti contro il meridione d’Italia povero e sottomesso si sono mossi solo per il bene dei meridionali. Visto che il Sig. Augusto Marinelli con la storia scritta dagli autori ipocriti, pennivendoli assoldati è capace di dimostrare tutta l’onesta e la correttezza dell’Italia del nord che ha mantenuto e nutrito il sud bonariamente con tanti sacrifici, il parlare dei ricercatori meridionali è inutile e controproducente. Questo meridione deve servire al popolo del nord come serbatoio di manodopera, per fare arricchire il settentrione e per non essere disturbati in questo lavoro prodigo e ricco di umanità verso il sud. I nostri politici e i nostri uomini di cultura vogliono ancora questo?

2 Commenti

  1. Egregio Maganuco, io le ho contestato decine di errori di fatto, tratti dai suoi autori di riferimento, contenuti nei suoi articoli. Lasci perdere gli insulti (chi sarebbero gli “ipocriti” e i “pennivendoli assoldati”? I grandi storici meridionali come Romeo, Scirocco, Cingari, Galasso, Giarrizzo, Cancila? Ma lei li ha mai letti? Conosce il mio lavoro? E quanto a Spadolini, vorrebbe dirmi di quale libro parla? E quali sarebbero i documenti “secretati” riscoperti da Vento e Forgione?) e provi a dimostrare che ero io a sbagliare come sulla pretesa chiusura di Pietrarsa. Lei sa che affermare “che i piemontesi dopo il 1860 misero a capo delle eccellenze esistenti nel meridione, e solo nel meridione, i peggiori galeotti del nord e del sud” è una solennissima castroneria? Tenti di suffragare questa affermazione con nomi precisi e se ne accorgerà da solo. Avendo incautamente citato un personaggio storico uno dei suoi autori, Antonio Ciano – per fare un esempio –, fu costretto a smentirsi pubblicamente da una querela dei discendenti della persona diffamata. E non confonda periodi e vicende distanti tra loro decenni: come si fa a mescolare il 1861 e il secondo dopoguerra come se in quegli ottant’anni non fosse accaduto nulla? Comunque legga almeno il libriccino di Salvatore Lupo, “La Questione”: potrebbe risultarle utile. E badi, tentare di usare la storia come strumento di lotta politica serve solo a diffondere una falsa storia e a fare cattiva politica.
    P.S. Come le salta in mente di definire Cavour “politologo”? Di De Sivo, che ho letto con attenzione tanto che non gli mai attribuito la definizione di Mazzini quale “profeta di Maometto”, parleremo un’altra volta sempre che il “Quotidiano di Gela” voglia continuare ad ospitare i miei interventi.

  2. Postilla. Forse perché mi sono formato in epoca lontana, continuo a ritenere che i giornalisti abbiano la responsabilità di informare correttamente i loro lettori mantenendo il pieno diritto di manifestare le loro opinioni.
    Scrivere “Abbiamo letto in tutti i testi storici ufficiali dei vincitori […] che nel settentrione d’Italia non esisteva il feudalesimo e i contadini vivevano nell’agiatezza assoluta” non è solo una frase priva di senso – chi sono i “vincitori” che hanno scritto saggi sull’economia agricola del Regno delle Due Sicilie? – ma o è un falso o è una dichiarazione di “mancata conoscenza” dell’argomento. Prendiamo un’analisi classica dell’agricoltura lombarda preunitaria, quella dello storico Franco Della Peruta (Le campagne lombarde nel Risorgimento, “Democrazia e socialismo nel Risorgimento”, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 37 e ss.): La regione montuosa era “la più arretrata della Lombardia, con forti residui di istituti e rapporti feudali” (p. 38) e in essa i contadini “vivevano in villaggi di case di pietra, vecchie e cadenti, […] e si nutrivano quasi esclusivamente di legumi, castagne, patate e latte; solo i più agiati potevano comprare polenta di granturco” (p. 42). E quanto alla condizione della generalità dei contadini della bassa Lombardia, a p. 55 la si definisce “miseranda”.
    Vogliamo parlare del Piemonte? Nel Piemonte meridionale ma anche nel torinese “l’alimentazione dei braccianti era prevalentemente a base di pane e polenta (onde ben presto […] non tardava a scatenarsi l’orrendo flagello della pellagra); la carne tra essi era quasi sconosciuta” e le case erano “tuguri a cui mancava spazio e luce, per lo più umide e sempre freddissime” (R. Luraghi, Agricoltura, industria e commercio in Piemonte dal 1848 al 1861, Torino, Istituto per la Storia del Risorgimento. Comitato di Torino, 1967, pp. 48-49). Se si preferisce leggere le baggianate di personaggi in cerca di notorietà a buon mercato invece di leggere gli studi degli storici , non è né colpa loro né colpa mia. Ringrazio ancora la Redazione per l’ospitalità.

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