Trentadue anni fa la mattanza, il 27 novembre di sangue che segnò la città

 
0

Gela. Il 27 novembre del 1990 è una data che è rimasta fissa nella mente di chi allora l’ha vissuta. Sono trascorsi trentadue anni dal baratro che fece sprofondare nel sangue una città in preda alla guerra tra Cosa nostra e stidda. In quattro agguati simultanei vennero uccise 8 persone e 7 ferite. Furono i 18 minuti che 30 anni fa sconvolsero la storia di Gela. La vigilia del Natale del 1987, quando vennero uccisi Lauretta e Coccomini, la mattanza ebbe inizio. Ed i morti si contavano giorno dopo giorno. Già un centinaio fino a quel maledetto fine novembre del ‘90 quando la Stidda decise di sferrare un attacco militare a Cosa Nostra, convinta di poter in quel modo affermare il proprio potere. Quattro commandi diversi si mossero dal covo di Settefarine e da un casolare di campagna di Acate. Erano armati fino ai denti.

Alle 19 in punto il primo gruppo di killer entrò in azione nella sala giochi Las Vegas, affollata di ragazzini. I primi bersagli erano loro. E fu una carneficina. I sicari erano quattro. Arrivarono con moto Enduro. Uno di loro tirò  fuori dall’impermeabile un fucile da caccia, si mise a sparare come un pazzo per terrorizzare i passanti. Dentro la sala c’erano almeno dieci ragazzi. Quello col fucile sbarrava la porta, gli altri sono saliti con i piedi sui biliardi e cominciarono a fare fuoco. “Parivanu bummiccedde”, mi sembravano petardi, ricorda il barbiere della bottega accanto al circolo ricreativo. Emanuele Trainito finì con la schiena su un flipper. Il secondo a cadere fu Salvatore Di Dio. Emanuele aveva 24 anni, Salvatore 18. Erano sospettati di fare estorsioni. Giuseppe Areddia ne aveva 17 di anni, tentò di fuggire, lo inseguirono e gli spararono alle spalle come un cane. Sei i ragazzi feriti, alcuni dei quali gravissimi. Mentre noi giovani cronisti cercavamo di capire, contare i morti ed i feriti il traffico impazzì ed arrivarono notizie di altri agguati. I centralini di carabinieri e polizia in tilt, gli scanner taroccati delle redazioni continuavano a ripetere altri indirizzi, altri morti. In via Tevere le pistole sparano ancora. Ed uccidono Giovanni Domicoli, un venditore di frutta. L’ orologio che ha al polso si ferma alle 19,07. Suo fratello Aurelio fu più fortunato, si buttò dietro un bancone di ferro, riuscendo a salvare la pelle. Lo colpiscono solo due pallottole. Dall’ altra parte della baracca i killer non sprecarono un proiettile. Due cognati uccisi, due incensurati senza storia che erano lì solo per caso, Nicola Scerra, 36 anni e Serafino Incardona, 33 anni.

Ma non era finita, non era ancora finita. Alle 19,15 ecco un Enduro girare attorno all’abitazione dei Trubia. Il cognato Luigi Blanco forse faceva da guardiano. Era incensurato. Tre colpi al cuore lo uccisero all’istanza. La mattanza non era ancora finita perché alle 19,18 il quarto commando di morte completò la sua missione davanti una macelleria  di via Venezia. Un colpo di fucile frantumò la sua vetrina. Due sicari inseguirono e ammazzarono Francesco Rinzivillo, quarantenne commerciante di carni. Con lui chiusero il conto.

Lo Stato si ricordò che Gela esisteva dopo quella strage. Cento morti ammazzati non erano bastati per mandare più carabinieri e polizia. L’alto Commissario alla mafia Domenico Sica venne a Gela il giorno dopo la strage. Il tribunale sarebbe stato inaugurato il 10 gennaio del 1991 dall’allora presidente Francesco Cossiga.

Gela era senza regole e le bande criminali sino ad allora comandavano indisturbate. L’associazione antiracket aveva fallito e la gente aveva paura. Non parlava nessuno. I pastori, quelli del clan Iannì-Iocolano, avevano deciso di prendersi tutto. Erano cani senza padrone.

https://www.youtube.com/watch?v=v9e7Sq4h5VM

Il link per lo speciale “Trincee-Gela: Il giorno più buio, 30 anni dalla strage”

Cinque giorni dopo la strage i carabinieri scoprirono il covo di Settefarine, dove i sicari avevano anche festeggiato con champagne, aragoste e cocaina la riuscita della mattanza. Dentro una botola trovarono Carmelo Rapisarda.

Gela, ribattezzata capitale della mafia, la città dei baby killer, seppe reagire ai morti, al racket, allo strapotere della mafia. Più di trentamila persone aderirono alla giornata di mobilitazione indetta da Cgil Cisl e Uil con lo slogan “Gela si ferma per andare avanti”. Al corteo si unirono settemila lavoratori del petrolchimico. La speranza la diedero gli studenti, quel giorno in prima fila.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here