Settimo Capitolo – Attentato in Vaticano

 
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Fabrizio, il giorno dopo gli interrogatori ritornò nel carcere di Roma Rebibbia per avere un colloquio con i presunti terroristi in detenzione, anzi durante il tragitto dallo studio di Roma Prati verso la casa circondariale maturò l’ipotesi di sentire solo colui che era considerato il capo del gruppo fondamentalista della cellula di Al Qaida, l’indagato Marwan Al Said, un medico egiziano che da anni in patria non esercitava più la professione sanitaria e certamente non era in Italia per vivere da turista.

L’avvocato si contrasse quando il primo dei pesanti cancelli blindati si chiuse alle sue spalle con un tonfo metallico, sordo e profondo, facendo scattare la serratura.

Un sovraintendente di polizia penitenziaria lo precedeva anticipando la via lungo il corridoio grigio e tetro, in un’atmosfera che odorava di una leggera muffa, spezzata dai rumori lontani, dalle porte sbattute,  dalle voci che provenivano dagli altri corridoi e dagli stridii delle stampanti non più in commercio da diversi anni, considerati dagli operatori amministrativi che lavoravano negli uffici adiacenti dei pezzi da museo.

L’avvocato era irritato; nonostante i diversi e precedenti controlli all’entrata, esterna ed alla prima porta interna, l’appuntato che lo seguiva passo dopo passo alla seconda porta aveva perquisito nuovamente la sua borsa professionale, chiedendogli se avesse dentro il telefonino, un’arma o delle munizioni, e si sforzò di non mostrarsi tale.

Non c’erano ulteriori ragioni di sicurezza a perquisire la borsa per lunghi e interminabili minuti, riguardandola con puntiglio diverse volte in tutte le cartelle interne, sfogliando i documenti.

Egli era abituato a un severo autocontrollo, acquisito anni prima presso l’accademia militare di Livorno,  quando era stato un ufficiale della guardia marina,  e lamentarsi per la perquisizione eccessivamente lunga e certosina sarebbe stato un’ulteriore perdita di tempo.

I tre uomini varcarono altri due cancelli esterni e si lasciarono nuovamente alle spalle la luce naturale del giorno.

Oramai erano stati superati i reparti degi uffici amministrativi e dei  detenuti comuni e si erano portati nel reparto AS, nella zona di massima sicurezza, dove le finestre erano alte e la vista all’esterno era impedita anche guardando di traverso.

Quando il suono dei passi cessò ed il poliziotto penitenziario disse all’ospite di aspettare in un piccola e stretta saletta blindata da una barriera di vetro, Fabrizio Berti sentì, al di là di essa, lo smorzarsi di una voce dall’accento straniero, greve e deciso, che si portò più vicina, sedendosi sulla rigida panca al di là del vetro.

I detenuti, nonostante il reso interrogatorio erano stati sottoposti al divieto di incontro tra loro, e al momento il conferire con il medico Marwan Al Said, un poliglotta che parlava discretamente la lingua italiana,  era sottoposto a rigide cautele ed al contempo era una fortuna per il difensore.

L’oggetto del colloquio fu quello di acquisire le notizie di prima mano da offrire al tribunale del riesame di Roma a supporto delle istanze di scarcerazione, quello stesso giorno dal legale presentate presso la cancelleria penale del giudice delle indagini preliminari  tramite un suo collaboratore di studio, l’avvocato Vincenzo Romano, con la riserva dei motivi aggiunti  dell’impugnazione.

Marwan Al Said si presentò all’avvocato come un detenuto modello, curato nella lunga barba e nell’abbigliamento tipicamente musulmano, dallo sguardo impenetrabile e dalla voce sferzante.

Imperioso come un leone in gabbia gli disse:

“Avvocato, io ed i miei compagni siamo uomini innocenti; le forze di polizia italiane sono fasciste e reazionarie, ma grazie ad Allàh, l’Uno e  Unico Dio Misericordioso, io ho letto le trecentosettantanove  pagine dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere sottoscritte una ad una dal giudice per le indagini preliminari.

I magistrati italiani  brancolano nel buio poiché nell’ascolto e nelle letture delle intercettazioni ambientali e telefoniche si sono avvalsi di traduttori della lingua araba di matrice sciita, forse uomini iraniani vissuti molti anni all’estero  che non conoscono bene il dialetto tipico dei villaggi maghrebini di un  mio fratello, oppure la mia dotta lingua araba egiziana o quella dei miei altri fratelli musulmani, nobili sauditi”.

Concluse, dopo una lungo monologo ricco di elementi nuovi, di fatti, di circostanze e riscontri:

“Che Allàh illumini gli inquirenti che hanno commesso  l’errore giudiziario ed imboccato una falsa pista investigativa.

Noi siamo solo degli umili commercianti, altri operai nostri  aiutanti, che a Roma ci siamo incontrati per organizzare la vendita di piante e prodotti biologici provenienti dalle terre e dai vivai dell’Egitto e del Marocco.

La merce partita dall’interporto di Nola, scambiata dagli inquirenti come corpo di reato da sequestrare,  in realtà  è un carico di detersivi e non dell’esplosivo.

I camion indicati nel corpo dell’ordinanza  di carcerazione sono di proprietà della Vesuviana chimica, società per azioni italiana, da imbarcare nel porto commerciale di Anzio, nel Lazio, e diretti verso la città di Agadir, sull’Atlantico.

I miei contatti con gli altri fratelli arabi e magrebini, annotati  e indicati in essa come gravi indizi di colpevolezza  sono giustificati dall’esigenza di massimizzare il profitto nell’affare legale: da Agadir le navi container navigano verso l’Italia cariche di humus biologico delle pianure marocchine  e ritornano alla meta con i prodotti italiani; nel caso, con i detersivi in polvere prodotti dalle vostre industrie chimiche  campane e distribuiti fino alle nostre città montane degli altipiani nordafricani”.  

Un sussulto fece fremere il difensore.

Possibile che i titolari delle indagini, professionisti del diritto e persone dalla sana integrità morale e intellettuale,  affiancati da un pool di esperti investigatori di polizia giudiziaria  e traduttori fedeli ai servizi italiani fossero incorsi in un abbaglio così evidente?

Il cliente era stato chiaro, la sua voce ferma, i fatti raccontati gli risultarono di una coerenza interna e di una logicità disarmante; sarebbe bastato al difensore produrre la documentazione attestante le transazioni commerciali, i contratti  registrati con le società di trasporto e di nolo, nonché provare che l’humus era il prodotto biologico effettivamente sbarcato nel porto di Anzio, mentre l’esplosivo altro non era che del semplice e innocuo detersivo in polvere di una grossa società campana, addetta al trasporto su strada di grossi container, da imbarcare al porto marittimo di Anzio e diretto all’imbarco.

“Uhmm”, chiosò l’avvocato.

“Contratti dunque registrati con date di partenza e di arrivo non sospette, passati ai raggi x  in dogana e nella capitaneria di porto”, valutò.

“Una consulenza tecnica di parte con la trascrizione fedele del contenuto delle intercettazioni ambientali demolirà integralmente il castello di carta pesta dell’accusa”, precisò Fabrizio.

La strategia difensiva apparve subito chiara ai due uomini, il difensore però doveva provare immediatamente tali fatti all’autorità giudiziaria se voleva ottenere un provvedimento favorevole dal tribunale della libertà romano, al fine di revocare l’ordine di custodia cautelare in carcere e restituire ai suoi clienti la libertà, della quale forse erano stati privati ingiustamente.

Era difficile, nonostante l’evidenza dei documenti e lui l’ho sapeva.

Lo sgomento suscitato nell’opinione pubblica mondiale per gli arresti dei presunti terroristi era  così vivo e clamoroso che i giudici del riesame sarebbero stati fortemente condizionati dagli atti dell’accusa.

Fabrizio chiese al cliente maggiori dettagli e i nomi delle persone, di funzionari  e delle società che erano in grado di fornirgli quanto gli fosse necessario.

Marwan  Al Said, con la controllata freddezza e lo sguardo quasi assente, disse al difensore di effettuare delle indagini difensive, recandosi al centro di Roma, nel quartiere di Ottaviano, in via Palestina  al civico sette, piano terzo, interno due.

Lì avrebbe trovato il nobile fratello Omar con la cognata, sua moglie Safyra, che avrebbero messo il legale nelle condizioni di acquisire i documenti e anticipato la  sua parcella, offrendogli un congruo anticipo.

“Il saldo dell’onorario alla mia scarcerazione, le sarà dato decuplicato, inshallàh, concluse sicuro il medico.

Il detenuto disse anche che il colloquio non gli era più di alcun interesse.

Si alzò dalla panca di cemento e, senza degnare il legale di un’ulteriore occhiata, lasciò impassibile e a passo lento la sala, indirizzandosi verso la sua cella, accompagnato dai poliziotti penitenziari.

Un minuto dopo sopraggiunsero nella saletta di colloquio dei detenuti l’appuntato  ed il sovraintendente  di polizia penitenziaria che con la voce alta e roca invitarono il difensore a seguirlo all’uscita.

Fabrizio, sconcertato dall’atteggiamento sicuro del cliente, come se a questi la detenzione non lo riguardasse, in silenzio iniziò a varcare i cancelli interni ed esterni, percorrendo  i  corridoi dei reparti per un centinaio di metri, con le celle ai due lati.

Le celle AS erano sporche e i cancelli arrugginiti, altre erano chiuse con lo spioncino al centro delle porte blindate, con delle feritoie lunghe e strette, che rendevano invivibili gli spazi interni.

Fabrizio vide delle figure di uomini dietro le gabbie ma cercò di non guardarle.

Varcò la zona di alta sicurezza, rientrando nell’area dei detenuti comuni e vide questa volta altri carcerati, apparentemente extracomunitari, che dietro le gabbie fumavano o sproloquiavano con i compagni. 

A metà percorso, sentì una voce provenirgli incontro che gridò: “avvocato, mi aiuti; sono innocente.  Voglio un avvocato”.

La voce era di un detenuto  dell’ultima cella del corridoio, nella quale, anche se ancora era un tardo mattino, le luci erano accese.

L’avvocato si portò verso il lato destro del corridoio, vicino la cella dalla quale essa proveniva.  

Curioso, vide all’interno chi vi fosse.

Il sovraintendente l’autorizzò ad un veloce, furtivo colloquio.

Un uomo cinquantenne e compassionevole, di origini napoletane, in dialetto gli chiese aiuto perché l’avvocato d’ufficio, il suo legale, a distanza di cinque mesi dall’inizio della carcerazione preventiva, non s’era visto in carcere una sola volta e non aveva presentato alcun ricorso all’autorità giudiziaria procedente.

Un delitto passionale era stato commesso a Napoli, nel quartiere di Posillipo, e l’uomo era stato arrestato con l’accusa di essere il mandante: al telefono aveva appresso dall’interlocutrice la morte della vittima, suo concorrente in amore e, per tale circostanza, s’era dichiarato soddisfatto.

“Sono innocente, avvocato”.

Fabrizio Berti, invogliato anche dall’appuntato di polizia penitenziaria a conferire velocemente con il detenuto, gli lasciò un bigliettino da visita, invitandolo a scrivergli preso il suo studio legale, promettendogli che l’avrebbe aiutato studiando il suo caso giudiziario.

Il legale, esperto dei suoi lunghi anni di professionale forense, intuì che la detenzione non aveva piegato la rabbia e forse l’innocenza dell’uomo.

Ancora un solo minuto per avere maggiori dettagli dal povero recluso, la cui luce degli occhi sprigionava le sue ragioni, testimoni della sua presunta innocenza, e il legale lasciò il carcere, con il pensiero  annebbiato da oscuri presagi.  

Salutò, congedandosi con l’augurio di rivedersi presto e raggiunse Roma centro ed il tribunale.

La sera, quando Fabrizio ritornò a casa dal viale del muro del Torto costeggiando villa Borghese e dalla via Pinciana, per riflettere girovagando poi con la sua autovettura tra villa Medici, l’accademia di Francia e trinità dei Monti sopra la scalinata di piazza di Spagna,  parcheggiò la sua autovettura in  un garage privato  e si diresse a piede verso la sua dimora.

Entrando nell’attico, sentì un fremito intenso e freddo alla schiena, che fu percorsa da cima a fondo, come se in casa regnasse un’atmosfera diversa da quella che lui conosceva.

Lorella era andata via, lasciando sul tavolo, nel salotto, una lettera scritta.

Diceva che lei aveva trovato un comodo appartamento e preferiva trasferirsi, per vivere da sola.

Era desolata, e ringraziava il suo uomo per l’amore che gli aveva dato, però le sue decisioni, dettate da scelte personali e professionali, erano meditate; senza alcun rimpianto la conducevano lontano da quella casa.

Era inutile che lui da quella sera l’aspettasse perché non lei non sarebbe ritornata.

Lo invitò  di non telefonarle, a non cercarla, di non sfuggire all’inevitabile.

Consapevole del dolore di entrambi, riteneva però quella scelta univoca, definitiva.

Concluse, sia pure in lacrime, dicendogli:

“Non ti dimenticherò mai, amore mio.

 Ti lascio con l’ultimo bacio e un forte abbraccio, però non posso, non voglio recedere dalla mia decisione”.

Fabrizio ammutolì.

Gli diceva di amarlo, eppure lo abbandonava.

Era stato il suo uomo, il migliore amico e l’amante, ora lei era fuggita, scusandosi e chiedendo di essere rispettata nella sua scelta di vita.

Poi, professionalmente, avevano svolto sempre un’attività complementare, diversa, e lui si era sempre offerto a consigliarla, a suggerirle delle soluzioni, spronandola nel dare il meglio di sé,  di credere nel suo lavoro ed in se stessa.

Non riuscì proprio a capirla.

Forse qualcosa tra loro si era rotto ed egli era stato così cieco da non accorgersene; il rimpianto iniziò a farsi strada nella sua mente e nel suo cuore, che pulsò con un forte, malinconico battito cardiaco, rompendo il silenzio sceso nella casa che gli apparve vuota.

Fabrizio avrebbe voluto scendere le scale, correre veloce lungo il vicolo del Bottino, ma lei era già lontana, chissà dove, e gli chiedeva di non cercarla, di non telefonarle, confidando nella capacità dell’ex convivente a mantenere le promesse, a qualsiasi prezzo.

Non gli rimase altro che sedersi sul divano, in soggiorno, distendendosi privo di forze e di stimoli, esausto, non riuscendo a capire dove lui avesse sbagliato.

Inerme, si sentì bruciare il petto, crollare il mondo addosso, e non riuscendo a scaricare la rabbia che gli trasalì, pianse di un pianto che gli risultò essergli arido ed estraneo. 

Pensò agli ultimi due anni vissuti insieme con la sua donna, oramai chissà dove.

Il trasferimento da Catania a Roma, la nuova carriera professionale, il successo e una vita diversa, lontano dalla sua Sicilia.

Pensò pure ai mille baci, alle coccole che si erano scambiati, all’amore che ogni volta donava il piacere ai due innamorati, alle emozioni sempre nuove.

Ora lui era solo, con lo sguardo girovago in quella casa arredata con lo stile che piaceva a Lorella, giovanile e al tempo stesso caldo, accogliente.

Ogni oggetto, ogni cosa, e la mobilia acquistati nei negozi durante i fine settimana gli ricordavano dei momenti unici, stupendi.

I suoi sentimenti erano spezzati, frustrati, la sua bocca asciutta e amara.

Possibile che la sua donna rinunciasse al loro amore così grande, così tenero e violento; poi, per una banalità.

Se fosse stato possibile, il giovane si dichiarò disponibile a ritornare indietro nel tempo, presentando subito al consiglio dell’ordine forense di Roma quella maledetta lettera di richiesta della sua cancellazione dalle liste dei difensori d’ufficio, casualmente rimasta morta per mesi sulla sua scrivania, pur di evitare l’inevitabile.

Era troppo tardi; alcuna fuga, invito o preghiera poteva modificare gli eventi.

Non gli restò che annegare i suoi sentimenti nel silenzio, soffocarli e sforzarsi di guardare al futuro.

In Fabrizio, l’idea che lui sarebbe sopravvissuto, si fece strada; tuttavia, per la prima volta dopo quindici anni, era ritornato a soffrire per una donna, e le lacrime gli scesero dagli occhi, senza volerlo.

Il tempo trascorse velocemente;  una, due ore  accompagnarono altre ore  e si fecero le ventidue.

A Fabrizio seccò guardare i talk-show o i film trasmessi alla TV, né gli andava di andare a dormire.

Decise di uscire e prendere un po’ d’aria.

Fece una lunga doccia per rinfrescarsi e ritemprarsi; indossò poi un vestito gessato e una camicia firmata, dal taglio sportivo e giovanile.

Dentro casa faceva caldo, ma lui sapeva che quella sera avrebbe fatto tardi o forse, addirittura, non vi avrebbe fatto ritorno.

Troppi ricordi lo legavano al suo attico; per la prima volta, vide la sua dimora con occhi ostili.

Telefonò ad un amico penalista, pregandolo di incontrarsi in un locale; i due si diedero l’appuntamento alla rotonda di piazza Venezia, a lato dell’altare della patria.

Mezz’ora dopo, i due colleghi si incontrarono e confabularono delle vicende personali.

Fabrizio, però non volle riferire di Lorella e, con una scusa, disse che quella sera aveva sentito il bisogno di uscire e di cambiare aria, di frequentare gli amici.

I due parlarono anche dei loro successi. 

“Faccio parte  della commissione sulla sicurezza nazionale della presidenza del consiglio dei ministri”, riferì Fabrizio all’amico, allontanando il dialogo dalle questioni personali, giustificando le sue scelte politiche e professionali.

“Serve al nostro Paese per conoscere meglio quanto sta accadendo in Italia e nel mondo.

Non potrò divulgare quanto appurerò, ma avrò da dire la mia.

Il primo ministro in persona, che presiede la commissione, vuole da me una relazione dettagliata; e credo che riuscirò nel mio compito”.

Dunque era proprio vero quello che l’avvocato Fabio Nocera aveva sentito tra i corridoi delle aule di giustizia: Fabrizio era entrato nelle grazie del premier e, gioco forza, successivamente era imminente l’ingresso in pianta stabile nello staff legale del presidente. Per di più, era membro e relatore della commissione sulla sicurezza nazionale, che gli garantiva i contatti con le persone importanti e influenti.

“Accidenti”, pronunciò meravigliato, congratulandosi con il giovane e coetaneo amico.

“Sei un asso, sempre pronto a bruciare le tappe.

Ho sentito che sei anche il difensore dei terroristi islamici, arrestati a Roma.

Sei un pazzo!

Come è possibile che tu abbia accettato un mandato difensivo così impopolare?

“Sono solo il difensore d’ufficio”, rispose lapidario; “tu lo sai che nella qualità, purtroppo, io non posso rinunciare al mandato difensivo, se  non per motivi gravi.

Credo che ogni indagato sia un presunto innocente; anche eventuali terroristi figli di puttana.

Poi presto abbandonerò la difesa”, disse sibillino, senza capire di avere, in realtà, l’orgoglio smisurato di chi non voglia subire alcuna imposizione e con l’implicito delirio di volere dimostrare al mondo intero che il caso giudiziario dell’operazione “ambasciata americana” potesse essere vinto senza vendere l’anima al diavolo.

“Oggi sono andato al carcere di Rebibbia per svolgere il colloquio investigativo con i miei assistiti e, per Dio, ho avuto l’impressione che a breve il tribunale della libertà revocherà quelle ordinanze di custodia cautelare in carcere per la mancanza di gravi indizi di colpevolezza, annullandole, anche se gli occhi di uno dei miei assistiti, che è il membro più influente del gruppo, sono di ghiaccio e hanno qualcosa di inumano e inespressivo”.

“Ma sei impazzito?” replicò Fabio imperterrito, continuando a opinare: 

“La procura della repubblica di Roma ha raccolto delle prove schiaccianti e forse, addirittura, stasera sono stati notificati agli indagati i decreti di sequestro dei camion imbottiti di tritolo che sarebbero serviti a far saltare l’ambasciata americana; ho seguito il telegiornale della sera, e l’ottimismo che dimostri, mio caro Fabrizio,  non ha alcun fondamento”.

“Ritengo che non ci sarà alcun sequestro”, ribadì certo l’avvocato Berti, come se pronunciasse una sentenza.

“La verità è un’altra, e raccontarla al popolo italiano sarebbe un’interessante novità”, rispose ancora sibillino, inconsciamente adirato più contro i magistrati requirenti titolari dell’indagine che contro i fondamentalisti islamici, suoi clienti.

“Sarà sicuramente un successo rassicurare l’opinione pubblica che le nostre città, oggi,  non corrono alcun pericolo”, concluse il difensore, guardando serio e diritto verso il collega.

A Fabio Nocera piaceva la personalità e il carattere di Fabrizio che affrontava gli argomenti con semplicità e competenza, ma stavolta l’ottimismo sfrontato dell’amico si scontrava con una delle attività preventive più intelligenti e professionali delle procura della repubblica della capitale.

Per l’avvocato Berti, invece, i fatti erano veri o falsi, puntuali o evanescenti.

In ogni caso, erano certi, mentre per Fabio esistevano un ventaglio di soluzioni, in una delle quali era possibile che al collega più esperto fosse sfuggita quella giusta.

“Le versioni della verità sono differenti”, commentò ancora sibillino Fabrizio.

“Nella vita, nel credo di una religione, in politica, gli uomini hanno una verità: a loro dire unica ed oggettiva.

In realtà, ognuno vuole imporre agli altri il proprio credo, e ci sono uomini astuti che all’opinione pubblica danno ciò che gli uomini vogliono conoscere, facendoli sentire a proprio agio, protetti, perché  Dio e le istituzioni vegliano, anche se poi i suoi rappresentanti chiedono maggiori funzioni e poteri, proponendosi quali paladini per la lotta contro il Male, interpretando soggettivamente il Bene”.

“E’ ridicolo, Fabrizio; lo sai benissimo che il blitz dell’operazione “ambasciata americana” ha coinvolto le intelligence di mezzo mondo,  e perfino il Mossad, il servizio segreto israeliano che notoriamente  è tra i più affidabili.

Qui non si tratta di ipotesi investigative, ma della pura e sacrosanta verità”.

“Vedremo, caro Fabio.  

Non parto mai dai preconcetti; ma se l’intuito non mi ha abbandonato, credo di essere nel giusto, almeno nella previsione della revoca di quegli ordini di carcerazione.

Credo, però, che dopo ci saranno ulteriori sviluppi nelle indagini, perché gli occhi del medico egiziano sono quelli del demonio scappato dagli inferi.

Ma non importa; stasera sono uscito per rilassarmi e divertirmi”, osservò il  legale, commentando le sue stesse determinazioni, deciso a tenere le briglie al suo pensiero che corse lontano.

“Facciamo un salto al Gilda e vediamo chi c’è stasera.

E’ improbabile che dentro c’incontriamo qualcuno dei nostri magnifici colleghi, che a quest’ora dormono come ghiri sotto le lenzuola o sono a casa in pantofole; certamente lì ci saranno delle donne interessanti e intriganti.

Poi, se c’è qualche ragazza vip, probabilmente si starà anche annoiando al tavolo di qualche emerito creditore idiota, regista o produttore televisivo.

Magari gay o non so altro…”.

“Non dirmi che ti schieri contro gli omosessuali”, obiettò l’amico, rivolgendosi sgomento a Fabrizio, tacciandolo di insensato maschilismo e addirittura, rifiutando l’idea  di Fabrizio divenuto un omofobo.

“Non sono contro gli omosessuali”, rispose sicuro.

“Sto solo valutando le nostre chances a pescare delle belle donne intriganti. 

No, non ho nulla da condannare”, ribadì il giovane.

“Libertà di essere e di agire significa essere se stessi, dunque, per un gay essere un omosessuale è sinonimo del suo essere.

E’ la stessa regola vale per me.

Io voglio essere me stesso.

Però, a me piacciono le donne e solo le donne”, puntualizzò.

“Siamo tra amici, caro Fabio, e in confidenza ti dico che mi sono permesso di fare solo una battuta.

Dai, non speculiamoci sopra.

Siamo in un luogo aperto e pubblico, e nella città più bella del mondo; non al parlamento europeo di Bruxelles, dove alcuni anni or sono un nostro leader politico è stato estromesso dalla commissione europea solo per avere affermato che l’omosessualità è un peccato.”

I due colleghi risero e riscaldarono gli animi; di scatto si imbarcarono sulla lucida e fiammante autovettura grigia argentea di Fabrizio Berti e si diressero nella discoteca più rinomata della città, per vivere un giro mondano e trascorrere la notte che si preannunciava ricca di schiamazzi e risate, come ai vecchi tempi goliardici e universitari dei due amici, lungo le strade e le viuzze sicule di Catania, da via dei Crociferi a piazza duomo, oppure percorrendo la lunghissima ed illuminata via Etnea.

Gli avvocati arrivarono poco dopo la mezzanotte al night e entrarono nel locale.

Il proprietario andò loro incontro, indicando all’interno un tavolo libero, dove si accomodarono e furono serviti.

Le ore passarono velocemente, una a una, sapendo Fabrizio di non avere molta dimestichezza con i super alcolici e ordinando con attenzione qualche succo d’arancia analcolico, però dopo una buona birra.

Lorella lo aveva sempre ammonito a non bere alcolici e le era grato per questo, perché da buon siciliano gli piaceva il vino, da consumare però durante il pasto.

Così il giovane era sempre se stesso e attento.

Poi, guidare le automobili alla sua maniera richiedeva una lucidità estrema, considerati i limiti di velocità che erano sempre superati abbondantemente dall’esperto conducente, facile nel districarsi e correre in ogni condizione del traffico stradale.

La città di Roma era un inferno caotico in ogni sua strada principale e sul raccordo anulare che la collegava dal suo centro al resto del mondo.

Il giovane non dava nulla per scontato e si fidava ciecamente dei suoi riflessi solo se egli era lucido; e il fatto di non essere un bevitore o un fumatore lo aiutava molto anche ad essere accorto e  vivere le serate in compagnia, senza eccessi, come quella notte.

Ritornare a casa, senza essere una preda dei fumi dell’alcol, fu anche quella volta la sua priorità.

Il tempo trascorse velocemente; alle quattro del mattino, i due colleghi lasciarono il night e si diressero nelle loro dimore, oramai stanchi della lunga notte, dei sorrisi e della compagnia al tavolo di due belle e avvenenti ragazze, alle quali i due uomini offrirono da bere ma con discrezione non chiesero il numero di telefono.

Fabrizio accompagnò Fabio nuovamente presso la rotonda di piazza Venezia, a riprendere l’auto del collega; dopo raggiunse immediatamente vicolo del Bottino e la sua casa, portandosi subito a letto, dormendovi solo per la prima volta dopo tanto tempo, vivendo un momento di forte inquietudine a pensare che in quella casa oramai l’amore fosse un ricordo.

E si addormentò con la consapevolezza che, in ogni caso, lui fosse nel giusto.

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