Gli spari e la lotta per la leadership nel clan, “era un avvertimento a Di Stefano”

 
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Gela. Un possibile regolamento di conti, all’interno del gruppo mafioso dei Rinzivillo. Ci sarebbe stato questo dietro agli spari contro l’ingresso di un’abitazione, riconducibile all’imprenditore Nicolò Cassarà, a processo dopo l’inchiesta “Fabula”. E’ accusato di estorsione ai danni di altri due imprenditori, Francesco Cammarata e Sandro Missuto, costituiti parti civili. In aula, davanti al collegio penale del tribunale, presieduto dal giudice Miriam D’Amore, a latere Marica Marino e Silvia Passanisi, sono stati sentiti tre agenti della squadra mobile di Caltanissetta che hanno seguito le indagini. “Dopo aver saputo degli spari – ha detto uno di loro – venimmo a conoscenza del fatto che quell’abitazione era stata data in uso a Roberto Di Stefano, intanto ritornato in città dopo aver lasciato il programma di protezione per i collaboratori di giustizia. In realtà, non era un avvertimento contro Cassarà ma fu Davide Pardo, nipote di Di Stefano, che volle avvertirlo, sparando. I due erano entrati in contrasto sia per vicende familiari sia per il controllo del gruppo locale dei Rinzivillo”.

Il controllo del gruppo Rinzivillo. Un altro agente della mobile ha invece descritto l’incontro avuto con Sandro Missuto. “Dal mio ufficio, mi avvisarono che c’era da incontrare Missuto – ha detto – si fece trovare in un bar, nei pressi di via Tevere. Era agitato e mi riferì che Cassarà gli aveva chiesto soldi”. Cassarà, difeso dall’avvocato Giovanni Lomonaco, ha sempre negato di aver imposto il pagamento di soldi ai due imprenditori. Dalle indagini, è emersa la vicinanza tra l’imputato e Roberto Di Stefano, già al vertice della famiglia Rinzivillo, che oggi continua a rilasciare dichiarazioni agli inquirenti.

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