Telefonate e minacce di morte da una località segreta, accuse al collaboratore di giustizia: nel mirino una giovane donna

 
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Gela. “Ad un certo punto, temevo che qualcuno mi seguisse costantemente”. Le telefonate e le minacce di morte. E’ stata la giovane vittima di diverse telefonate minatorie a deporre in aula, davanti al giudice Antonio Fiorenza, nel processo aperto a carico del collaboratore di giustizia Gianluca Costa. L’uomo che negli scorsi anni ha iniziato a collaborare con i magistrati, rivelando anche diversi particolari del business mafioso dell’ortofrutta e dei trasporti, è accusato di essere stato l’autore di diverse telefonate anonime, ricevute proprio dalla giovane donna, costituita parte civile nel procedimento con gli avvocati Mirko Maniglia e Paola Turco. “Successivamente, ho saputo chi fosse l’autore delle chiamate – ha detto – non lo conoscevo. Lui, invece, dimostrava di essere al corrente di tanti particolari della mia vita privata. La prima telefonata, con insulti e minacce di morte, la ricevetti mentre mi trovavo con alcuni amici in un locale della città. Poi, un’altra arrivò in piena notte, mentre dormivo nella mia abitazione. Sapeva anche della separazione dal mio ex marito”. In base a quanto ricostruito dai magistrati della procura, le telefonate anonime partirono dall’abitazione assegnata al collaboratore di giustizia che, in quel periodo, risiedeva in una località protetta del Nord Italia. L’imputato è difeso dall’avvocato Alessandro Catalano. La difesa mira invece ad escludere che dietro alle telefonate possa esserci lo stesso imputato. Durante l’udienza è stato ascoltato, sempre in qualità di testimone, anche uno dei funzionari che si occupava di gestire il programma di protezione speciale garantito a Costa.

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