Il blitz antimafia “Tetragona”, in aula parla ancora l’imprenditore Emanuele Mondello

 
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Gela. Ha chiarito le ragioni del prestito in denaro garantito ad uno degli imputati, il presunto referente di cosa nostra in Liguria Emanuele Monachella. Sentito anche il commesso di un negozio d’abbigliamento. L’imprenditore Emanuele Mondello è stato nuovamente sentito davanti ai giudici della Corte d’appello di Caltanissetta. La sua testimonianza è stata resa nel corso del giudizio di secondo grado, scattato dopo le pesanti condanne decise dai giudici del collegio penale del tribunale di Gela. Tutto si lega al maxi blitz antimafia “Tetragona” e sono strati alcuni difensori, a cominciare dal’avvocato Giacomo Ventura, a chiedere una parziale riapertura dell’istruttoria. Emanuele Mondello, già in primo grado, ha scelto di costituirsi parte civile, con l’avvocato Vittorio Giardino, perché vittima di pressioni ed estorsioni da parte dei clan. Così, ha ripercorso quanto accertato dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta che, con l’inchiesta “Tetragona”, riuscirono a delineare il profilo di cosa nostra tra Gela, la Liguria e la Lombardia. Durante l’udienza, inoltre, è stato ascoltato uno dei dipendenti di un negozio d’alta moda di Caltanissetta. Il testimone ha confermato che, in diversi casi, alcuni gelesi si presentarono acquistando capi d’abbigliamento, pagati dallo stesso Mondello. Si tornerà in aula a settembre.

I verdetti di primo grado. In primo grado arrivarono cinque assoluzioni pronunciate dal collegio penale del tribunale presieduto da Paolo Fiore. Per due collaboratori di giustizia, Rosario Trubia e Nunzio Licata, venne  pronunciato il “non doversi procedere” a seguito dell’estinzione dei reati contestati. L’assoluzione fu decisa per Pietro Caielli, Claudio Conti e Sebastiano Pelle. La pubblica accusa, invece, chiedeva un totale di quarantaquattro anni di reclusione. Erano accusati di aver preso parte ad un vasto giro di droga, sia sulla tratta che conduce nella provincia di Varese che su quella calabrese. Le condanne più pesanti, invece, furono pronunciate per Emanuele Monachella, Armando D’Arma, Salvatore Burgio e Aldo Pione. A Monachella, difeso dagli avvocati Giacomo Ventura e Danilo Tipo, venne riconosciuta l’appartenenza al clan di cosa nostra, attivo soprattutto a Genova, oltre alle presunte estorsioni ai danni dell’imprenditore edile Emanuele Mondello. Così, alla condanna a 3 anni e 6 mesi si aggiunse quella a 10 anni e 6 mesi.Per Armando D’Arma, il collegio pronunciò la condanna a 3 anni e 6 mesi e quella a 8 anni e 6 mesi. Stando ai magistrati della Dda avrebbe preso parte al giro d’estorsioni controllato dai clan locali. L’appartenenza a cosa nostra venne riconosciuta all’anziano geometra Salvatore Burgio.Il professionista, difeso dall’avvocato Antonio Gagliano, fu condannato a 9 anni di reclusione. Il legale di difesa aveva categoricamente smentito in aula che lo studio del geometra fosse diventato la “cabina di regia dei clan locali per la gestione delle estorsioni e degli appalti”. 9 anni sono stati inferti anche ad Aldo Pione, difeso dagli avvocati Danilo Tipo e Nicoletta Cauchi. I magistrati lo ritennero il collegamento strategico tra la provincia di Varese e il boss Gino Rinzivillo che faceva base a Roma. 8 anni e 6 mesi di reclusione per l’ex ambulante Giuseppe Piscopo, accusato di aver sottoposto ad estorsione i titolari di due supermercati a Caposoprano e Scavone. Il suo legale di fiducia, l’avvocato Boris Pastolrello, invece, sottolineò come l’attività dell’imputato si limitasse solo allo spaccio di droga, autonomo da qualsiasi appartenenza a cosa nostra. 3 anni, ancora, per Nunzio Cascino; 2 anni e 6 mesi per il collaboratore di giustizia Fortunato Ferracane; 3 anni e 6 mesi, a testa, per Angelo Greco e Giuseppe Truculento; 1 anno e 6 mesi per l’altro collaboratore Orazio Marcello Sultano; 4 anni e 4 mesi di reclusione, infine, per Alessandro Farruggia, ritenuto coinvolto nella tentata estorsione ai danni del gruppo imprenditoriale gestito dai fratelli Brigadieci. Pronunce assolutorie arrivarono per gli stessi condannati ma rispetto ad altri capi d’imputazione. Nella maggior parte dei casi, venne riconosciuta la continuazione con precedenti sentenze di condanna.  Tra le parti civili costituite, il Comune, Confindustria provinciale, la federazione antiracket nazionale, l’associazione “Gaetano Giordano”, l’imprenditore Emanuele Mondello e i titolari dei supermercati presi di mira, ovvero Nunzio Di Pietro e Cristoforo Infurna.  

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