Fake news e timori, dalla Vergine Maria ai “webeti”

 
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Uno spettro si aggira per l’Occidente: lo spettro delle fake news generate nella rete. Tutti i vecchi poteri dell’Occidente si sono coalizzati in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro: il papa e il pope, il presidente e il prefetto, il politico e il poliziotto.
Uscendo dalla citazione scherzosa e limitandoci all’Italia, è interessante esaminare l’ipocrisia che accompagna la vera e propria fobia delle fake news della rete che sembra aver colpito in particolare i politici e certi loro amici influenti della cosiddetta carta stampata.
Per prima cosa, occorre stare attenti alla confusione, che è quasi un’identificazione, tra fake news e rete, come se quest’ultima fosse per natura destinata a generare il falso. È quasi imbarazzante dover sottolineare una tale banalità, ma questo nesso stretto serve a screditare il web, la cui intrinseca anarchia è molto temuta dai tradizionali centri del controllo politico dell’informazione.
È molto importante tenere presente che le fake news accompagnano da sempre l’umanità parlante e che di credenze false è intrisa la cultura umana nella sua totalità. In tutto ciò la rete ha semplicemente il ruolo di mezzo ideale per la loro propagazione istantanea e planetaria. E così arriviamo alla tesi che intendo qui difendere: il mondo digitale è sì il migliore amico delle fake news per quanto riguarda l’aspetto puramente “meccanico” della loro propagazione, ma nello stesso tempo è il loro killer più implacabile, perché nessuna falsità resiste per molto tempo dal momento in cui entra in circolo della rete. Il confronto con alcune celebri credenze false che hanno inciso profondamente e durevolmente sulla realtà storica e sulla nostra cultura chiarirà quello che intendo dire.
Prendiamo, per esempio, due credenze relative all’immaginario mitico, che costituiscono un caso curioso di falso al quadrato, perché fiorito nell’ambito della finzione narrativa: il Cavallo di Troia e la Vergine Maria. Si tratta di due oggetti culturali profondamente radicati in miliardi di menti umane, la cui genesi, come sembra ormai chiaro, è strettamente legata a banali fraintendimenti, probabilmente non intenzionali, relativi alle parole. Nel primo caso, come ha recentemente sostenuto l’archeologo navale Francesco Tiboni, pare che a un certo punto, nel periodo post-omerico, si sia inteso per omonimia come “cavallo” un tipo di imbarcazione fenicia dotata di una polena a forma di testa equina. Nel secondo caso, com’è ormai ben noto ai biblisti, si trattò dell’erronea traduzione come “vergine”, prima in greco e poi in latino, della parola ebraica (“almah”) che nella celebre profezia di Isaia 7.14 indica semplicemente una giovane donna.
Consideriamo ora due clamorose bufale intenzionali relative alla Chiesa di Roma e riguardanti fatti non mitici ma storici. La prima è stata prodotta dalla stessa Chiesa per giustificare il proprio dominio temporale sull’Occidente ed è la cosiddetta donazione di Costantino. Ebbene, dalla creazione del falso documento (IX secolo) all’opera di “debunking” (come si direbbe oggi) di Lorenzo Valla (1440) sono passati circa sei secoli! Quanto durerebbe oggi una bufala del genere? È ovvio che avrebbe appena il tempo di essere proferita. La seconda, che propongo per par condicio, si è diffusa come una sorta di burla intorno alla metà del XIII secolo. Si tratta della ben nota leggenda medievale della papessa, secondo cui il fantomatico papa Giovanni VIII, regnante tra l’853 e l’855 (altri dicono dall’855 all’858), sarebbe stato in realtà una donna. A questa credenza dava credito nel XIV secolo persino il grande filosofo empirista Guglielmo di Occam (si veda il suo “Dialogo sul papa eretico”, 5.7), che pure è noto per il suo “rasoio”, un’indicazione di metodo che invita a non introdurre entità superflue e sconosciute nella spiegazione dei fenomeni. La credenza è stata confutata dagli storici da circa quattrocento anni, eppure, sia per il suo fascino oggettivo sia per la sua utilizzabilità in chiave polemica negli ambienti protestanti, ha attraversato i secoli e ancora oggi ispira la letteratura e il cinema.

E veniamo, per finire, alle fake news della rete. La presidente della Camera Laura Boldrini ha perfettamente ragione a indignarsi e ad esigere solidarietà per l’ignobile campagna di denigrazione a base di bufale di cui è vittima presso i “webeti” particolarmente violenti e volgari, ma ha torto, e con lei certe firme autorevoli della carta stampata, quando fa leva su tutto ciò per ventilare la possibilità di mettere la rete sotto un controllo censorio. Per un tipico effetto di autoregolazione, infatti, le bufale virali hanno vita brevissima, perché l’opera di fact-checking e debunking è pressoché immediata (fate un esperimento: andate alla voce su Napoleone di Wikipedia e scrivete che a Waterloo egli vinse da allenatore la finale di Champions League con il Real Ajaccio).
Si dirà: se una fake news che genera odio raggiunge centinaia di migliaia di persone, siamo di fronte a una grave minaccia. Un esempio recentissimo (12 febbraio 2018) è il post su Facebook di quel tale che raccontava un episodio fantomatico accaduto davanti a lui sul treno, riguardante lo scontro tra un controllore e un immigrato fornito di biglietto non valido. La bufala era costruita ad arte, perché era verosimile e confezionata con una retorica efficace. Eppure, nonostante l’incredibile diffusione, la smentita è arrivata in pochissime ore, con i giornali che però hanno insistito più sulle numerosissime “condivisioni” che sulla rapidità della smentita. E tutti quelli che ci sono cascati e si sono scaldati contro gli immigrati? Peggio per loro: la loro tragedia mentale rimanda al problema pedagogico dell’educazione all’uso critico di Internet, ancora pressoché ignorato dalla scuola italiana nonostante i primi appelli in tal senso di Umberto Eco risalgano ormai ad almeno una dozzina di anni fa (a tal proposito andrebbe letta in tutte le classi la “Bustina di Minerva” del 16 gennaio 2006, “Come copiare da Internet”, poi inclusa nel volume “Pape Satàn Aleppe”, 2016). Senza contare che la disposizione a cadere nelle trappole delle fake news è così intrinseca al nostro cervello, indipendentemente dalla rete, che per gli esperti, come recita il titolo di un fortunato libro italiano di psicologia evoluzionistica uscito dieci anni fa, siamo “nati per credere” soprattutto in ciò che in qualche modo ci fa comodo, e questo per ottime ragioni di sopravvivenza. Ecco perché tenere sotto controllo una tale propensione così irresistibile è un lavoro educativo lungo e difficile.

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