Unità d’Italia, è bastato definire i meridionali briganti per giustificarne il massacro

 
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Gela. L’argomento che mi accingo ad affrontare è molto delicato, perché affronta situazione storiche, morali e civili della nostra civiltà meridionale.

Premesso che non è nella mia intenzione dichiarare un coinvolgimento di vario tipo alle regioni che ci hanno ridotti in questo stato di indigenza, ma di dimostrare nella forma più pacifica il ripristino della dignità persa, la storia deformata che le regioni del nord ci hanno imposto in questi ultimi due secoli. Io voglio partire da fatti, ormai certi, come il massacro di Pontelandolfo, Casalduni, Palermo sette e mezzo, Bronte. Fatti ampiamente dimostrati da alcuni ricercatori meridionali. Il regno delle due Sicilie fino al 1860 era governato dai Borboni (oggi sinonimo di arretratezza e miseria) ed aveva una buona posizione in Europa, sicuramente invidiata dalle regioni dell’Italia di allora. Con la scusa della unificazione dell’Italia i Savoia invasero il meridione senza alcuna dichiarazione di guerra compiendo i massacri appena accennati sopra. A Pontelandolfo, a Casalduni, come alle fosse ardeatine, sono stati compiuti assassinii di massa atroci. Ma mentre per le fosse ardeatine l’eccidio contro i tedeschi è stato compiuto in via Rasella (Roma) dai partigiani, ritenuti eroi della seconda guerra mondiale. l’Italia non si dimentica di ricordare, la storia imposta dal nord, che riguarda il meridione cioè i briganti devono essere forzatamente dimenticati.

In questi due paesini, sono stati i briganti meridionali, considerati ladri e non oppositori al re Vittorio Emanuele II che pubblicamente dichiarava: “Non siamo insensibili al grido di dolore che da tutte le parti d’Italia si eleva verso di noi”. Tutto trova giustificazione, così il generale Cialdini, agli ordini di Cavour, può dare fuoco alle due piccole città e massacrare donne e bambini senza pietà. Qui il rapporto non è come per le fosse Ardeatine di uno su dieci ma di due città con più di 10 mila abitanti complessivamente, contro tre o quattro soldati piemontesi uccisi. Ancora oggi i Presidenti della repubblica appena eletti, vanno a deporre una corona di alloro per i trecento uomini fucilati per opera dei partigiani eroi, mentre per quelli di Cialdini, morti meridionali dimenticati, non bisogna ricordare niente perché ritenuti briganti.

Noi tutti meridionali dovremmo prendere coscienza della realtà storica e della nostra dignità calpestata senza pudore. Tutta la cultura meridionale ha una responsabilità storica importante, perché asservita dal potere centrale prezzolato senza ritegno. I politici con tutti i sindacati fanno buona, ottima compagnia con la cultura Italiana fortemente interessata al problema storico-sociale dell’Italia del secolo XIX. I vari fermenti rivoluzionari che caratterizzarono il periodo con i movimenti rivoluzionari portarono Cavour e Vittorio Emanuele II ad invadere l’Italia per asservirla alla dinastia dei Savoia senza considerare il numero di morti per raggiungere l’obiettivo fissato. Il re Savoiardo applicando la teoria Machiavellica, nella forma più rigida possibile, si comporta da macellaio, come l’avevano definito i suoi conterranei, uccidendo e massacrando il meridione senza tenere conto dei vincoli di sangue che lo legavano ai Borboni. Tutto era lecito. Bastava che definisse i meridionali briganti e ogni suo massacro trovava giustificazione e così ha potuto unificare l’Italia da nord a sud e ogni ladrocinio poteva essere perdonato. Così i vari Garibaldi, Cavour, Crispi, i maggiori dei suoi sudditi trovavano acclamazione e compiacimento. Nessuna voce si è mai sollevata a favore dei morti del meridione perché i nostri colonizzatori sono stati impegnati a farci dimenticare il passato e a riempirsi le tasche di proventi mafiosi. Vogliamo ricordare i maggiori bonificati del regno Borbonico che tradirono il loro re, con indomito coraggio e spudoratezza, per denaro. Tra questi ricordiamo: il generale Nunziante, il generale Lanza, il generale Clery, il generale Pinelli, l’avvocatuccio Liborio Romano e i due fratelli del re Leopoldo di Borbone, conte di Siracusa e Luigi di Borbone conte d’Aquila tutti è due fratelli di Ferdinando. II conte d’Aquila essendo Ammiraglio delle forze navali Borboniche, meriterebbe un posto d’onore o di disonore, per avere ridotto le forze navali napoletane (ad eccezione di pochi ufficiali e della ciurma), ad una congrega di settari e la defezione della flotta fu una potente leva per rovesciare dinastia e trono. Di Liborio Romano, uomo senza scrupoli, senza dignità, potremmo parlare a lungo ma basta ricordare le sue origini in una borgata in terra d’Otranto dove si distinse per codardia e iniquità, nato da oscuri parenti che nei moti del 1821 aiutati da poveri preti fu invogliato a seguire studi classici e si laureò in giurisprudenza. Il suo nome segnalato al tribunale di Lecce lo portarono fino alla carica di ministro del re Francesco II. Al tribunale di Lecce si guadagnò il titolo di costituzionalista, nomina che gli permise di guadagnare molto denaro a Napoli. Un periodo molto critico per don Liborio che soffrì le pene del carcere e dell’esilio che non lo portarono a fare buoni propositi, ma le continue suppliche al re, gli permisero di ritornare a Napoli. Come fedele suddito del re, si offrì ai ministri come informatore e presto fu nominato magistrato di polizia. Voleva salvare il Re ma appena scoprì che Garibaldi non veniva fermato nel suo viaggio per Napoli, passò con i vincitori, assoldò turbe di assassini ed aggredì pubblici uffici di sicurezza. Il re prima di partire per Capua e poi per Gaeta, tenne l’ultimo consiglio dei ministri e in maniera molto sorridente quasi scherzosa si rivolse verso don Liborio e sorridendo disse: “Don Libò, guardat’o cuollo!” Voleva dire; Se torno ti faccio la festa”. Don Liborio calmo rispose “Sire, farò di tutto per farlo rimaner sul busto il più a lungo possibile”. Cavour invece gli faceva i complimenti, lo nomina ministro e scrisse una lettera di ringraziamenti per il suo operato e alla fine lo saluta così: “Mi creda preg. Don Liborio suo dev, Cavour””. Il generale Vito Nunziante fu fatto Duca e per un vincolo di corte fu fatto generale. Si accorse che il tempo volgeva verso il liberalismo, capì che la nave stava affondando e Alessandro Nunziante, duca di Mignano nominato brigadiere generale il 21 dicembre 1855, aiutante di campo di Sua Maestà e ufficiale del reale esercito dell’armata di mare edito a Napoli nel 1860 nel medesimo anno varcò la barriera e si fece generale sardo. Gli danno del settario, ma non ne aveva l’ingegno lo definiscono traditore, ma da questa verità non riesce a venirne fuori e prova a far parte di quel regno d’Italia che lo ripudia dopo i fatti contro l’Austria del 1866 rimpiange la dinastia ripudiata. Questi erano gli uomini che il grande Cavour amava circondarsi, per risolvere i grandi problemi che assillavano l’Italia del XIX secolo.

2 Commenti

  1. Premesso che invito caldamente l’autore (anonimo) di questo scritto a leggere “1860: LA VERITÀ” dove troverà trascritti integralmente oltre 500 documenti d’epoca che gli illustreranno i VERI “come e perché” dell’impresa garibaldina e della conseguente unità d’Italia.
    Si usano sempre i soliti “luoghi comuni” senza fare “ricerche di documenti” innanzitutto per conoscere il modo di vivere e l’organizzazione dello Stato borbonico, e poi per comprendere se quanto si afferma può, o meno, essere veritiero.
    Mi riferisco al tradimento di ammiragli e generali borbonici nei tragici eventi del 1860!
    Cercherò di essere sintetico ma sono disponibile ad approfondire l’argomento.
    A) Se è vero, come è vero, che il RdS era praticamente in bancarotta a seguito soprattutto delle spese sostenute per la II guerra d’indipendenza, dove prendeva i soldi per corrompere i militari borbonici?!?
    B ) Ammesso, e non concesso, che i soldi ci fossero, il Rd2S era l’unico stato in Europa, e forse al mondo, che aveva una organizzazione tale per la quale TUTTE (ma proprio TUTTE) le decisioni, a prescindere dall’argomento e dalla effettiva importanza, venivano prese solo, esclusivamente e SEMPRE dal sovrano. Ciò era stato voluto nei primi anni del suo governo da Ferdinando II in quanto, avendo scoperto enormi ed innumerevoli imbrogli perpetrati da molti dignitari e consiglieri di corte durante il governo del padre, aveva avocato a se TUTTE le decisioni perseguendo quanti, sfruttando il loro ruolo di consiglieri e responsabili della cosa pubblica, furono riconosciti colpevoli di aver agito per il proprio tornaconto. Di conseguenza sparì la figura del consigliere sia perché il re non si fidava, sia perché nessuno voleva correre il rischio di essere accusato, nel caso di eventi negativi, di aver dato indicazioni rivelatesi controproducenti sospettando un interesse personale. Francesco II ereditò tale organizzazione ma essendo completamente ignorante (nel senso di conoscere) negli ambiti militare, politico e diplomatico, sbagliò TUTTE le decisioni che prese in merito all’impresa garibaldina. In pratica ammiragli e generali erano (e furono) degli emeriti “esecutori di ordini”. Pertanto la responsabilità di sconfitte militari, di raggiri diplomatici e di errate scelte politiche, sono da attribuire UNICAMENTE a Francesco II. Quindi, salvo rare eccezioni che non fanno testo (come quella del comandante Anguissola) nessuno può essere accusato di “tradimento”!!!
    C) Se per assurdo invece ci fossero stati dei traditori, perché questi non furono mai processati da una corte marziale borbonica fosse pure in contumacia ed a posteriori ?!? Gli unici ufficiali che furono mandati sotto processo con l’accusa di avere, con il proprio comportamento, favorito il nemico, furono i comandanti delle 3 navi borboniche che intercettarono i vapori garibaldini mentre stavano completando il (primo – ce ne furono altre svariate decine) sbarco a Marsala l’11 maggio 1860. I 3, dopo poche udienze, a fine maggio furono prosciolti dall’accusa e reintegrati nelle loro funzioni di comando poiché riuscirono a dimostrare di aver semplicemente eseguito gli ordini “reali”!!!
    D) Corrisponde al vero che molti ufficiali borbonici passarono tra le file dei garibaldini e dei piemontesi ma la stragrandissima maggioranza di questi passaggi avvenne a partire dalla seconda metà del luglio 1860, cioè quando (ormai) i giochi erano fatti e non era neanche ipotizzabile una sconfitta garibaldina. In più, TUTTI i ”cambi di casacca” avvennero previo la presentazione da parte dei singoli interessati di istanze al sovrano per essere posti in pensione. Tali domande furono TUTTE e SEMPRE accettate da Francesco II. Pertanto, nel momento in cui questi ufficiali passarono con i garibaldini/piemontesi erano degli “EX” militari borbonici e, come tali, in punta di diritto, non possono essere definiti traditori sebbene, moralmente, il loro comportamento può essere biasimevole.
    Per quanto concerne don Liborio Romano (assicuro che non è parente) anche qui bisogna superare i soliti luoghi comuni. Don Liborio era un noto “rivoluzionario” napoletano (sebbene fosse nato in Puglia), protagonista dei moti rivoluzionari del 1848/49 e, per questo, condannato all’esilio. Rientrò nel 1855 e fu Francesco II, dopo aver promulgato la Costituzione liberale il 25 giugno 1860, a nominarlo responsabile della polizia e poi Ministro degli Interni. Se affidi le pecore al lupo e lasci aperto la porta dell’ovile, non ti devi meravigliare se il gregge sparisce !!!
    Quanto detto trova piena conferma dai documenti trascritti integralmente nel libro “1860: LA VERITÀ”.
    Disponibile ad approfondire la tematica, lascio il mio recapito: 348 3308916.
    Cordialità,
    Claudio Romano.

  2. Concordo con molte delle osservazioni di Claudio Romano. Sui punti di dissenso, trattarli in poche righe di un commento è ovviamente impossibile. Mi rammarico che Maganuco purtroppo continui imperterrito a massacrare la grammatica italiana tanto da rendere qualche passaggio del suo testo addirittura incomprensibile. Per il resto, se avesse letto almeno De Sivo saprebbe che Pontelandolfo e Casalduni non furono distrutti visto che don Giacinto dice espressamente che i contadini spensero gli incendi (G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, volume quinto, Viterbo 1867, p. 134). Quanto alle vittime è ampiamente noto dalla documentazione esistente che i soldati italiani uccisi furono 41 e non “due o tre”, che vennero assassinati durante la rivolta quattro liberali e che le vittime della repressione delle truppe furono tredici. Sulle Fosse Ardeatine farebbe bene a tacere, piuttosto che scrivere delle sciocchezze poco commendevoli.

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